Annibale alle porte!
La città campana, fiorente nei commerci ed asai ricca, resistette per tutto l’inverno del 212 a. C. attendendo fiduciosa l’aiuto di Annibale che però si dimostro inutile: i Romani non mollarono l’assedio e respinsero i cartaginesi che “non potevano continuare a rimanere a lungo accampati in quel posto con la propria cavalleria – scrive Polibio – poichè i Romani avevano distrutto, volutamente, tutti i pascoli dei dintorni e non era possibile far trasportare a dorso di mulo foraggio e orzo per cavalli e bestie da soma…”. Il condottiero di Cartagine allora si vide costretto ad abbandonare l’idea di liberare Capua dall’assedio e puntò a prendere Roma.
Col grosso dell’esercito nemico impegnato a tenere l’assedio della città campana, l’iniziativa di Annibale poteva cogliere Roma sguarnita di forze. Il grido di “Hannibal ad portas” echeggiò in effetti seminando sgomento nell’Urbe. Tal grido restò anche nelle generazioni seguenti a segnalare il massimo pericolo, ma l’attacco di Annibale non ebbe successo e proprio da qui cominciò la sua parabola discendente.
“La città indomita – scrive G. De Sanctis in ‘Storia dei Romani’ – si svelava tra i colli agli occhi degli avversari, superbi d’accostarsele impunemente. Oppressa dall’ansia per la sorte delle legioni campane che si supponeva avrebbero dovuto tagliar la strada al nemico e fremente per l’umiliazione dell’avere lo straniero alle porte per la prima volta dopo le invasioni galliche del V secolo, Roma non mai come allora vide Annibale minacciar terribilmente i suoi penati. Fu pel popolo romano prova assai dura. I campi e le cascine dell’agro sotto gli occhi dei proprietari, impotenti, erano messi spietatamente a foco ed a sacco: con tanta maggior copia di bottino in quanto, non sospettando il pericolo, non s’era provveduto alle difese. E tuttavia nulla, purchè non si smarrisse l’animo, era perduto; anzi pericolo per la città non v’era se non quello che i cittadini si lasciassero indurre dal turbamento ad avventatezza di deliberazioni. I bastioni erano saldissimi, e di recente la rotta del Trasimeno aveva persuaso a restaurarli. Per difenderli non mancavano nè duci nè uomini. Erano tuttora in Roma, fortunatamente, i consoli occupati nelle pratiche di leva, che incontravano difficoltà come l’anno innanzi, perchè la popolazione cittadina non bastava più allo sforzo che se ne chiedeva. Erano, tra i senatori, comandanti sperimentati, a cominciare dal vecchio Fabio, cui si potevano commettere senza timore gli eserciti a fronte del nemico”.
Roma dunque non era completamente sguarnita di difese. Presidiavano la città due legioni urbane, altre coscrizioni erano state avviate, le mura erano fortificate e si dispose pure che forze in buon numero avessero disposto un campo, fuori dalla città, ad un miglio da Annibale. Gli eserciti si trovarono schierati a ridosso del fiume Aniene, ma una fortissima pioggia, mista a grandine, costrinse i soldati a ritirarsi nei propri accampamenti. Una pioggia si abbatte furiosa sul campo di battaglia anche nel giorno seguente. Annibale scosso da questi accadimenti e dal constatare al prontezza di mobilitazione romana, ritirò la sua armata fino al fiume Tuzia, a sei miglia da Roma per poi abbandonare definitivamente l’assedio. Il condottiero allora – scrive ancora De Sanctis – “riconosciuto che nn era riuscibile nè una sorpresa nè un assalto, carico di prede fatte nella campagna, si accinse al ritorno. Non senza amarezza, per avergli negato la sorte una occasione di trionfo degna dell’odio che Roma gli ispirava…”.
Autore articolo: Angelo D’Ambra
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